GAETANO IMMÈ - TANINO DA ORTIGIA
VI SPIEGA COME E PERCHÉ’ FU UCCISO ALDO MORO
IL CASO DI ALDO MORO
NASCE, VIVE E SI CONCLUDE IN VATICANO
Dopo quasi mezzo secolo, quarantadue
anni, due Commissioni parlamentari Moro (Stragi e Moro 1), passato ormai il
tempo necessario affinché la verità o la ricostruzione storica dell’omicidio di
Aldo Moro che più si avvicina ad essere “la più probabile risoluzione di quell'omicidio”
si possa far intravedere anche al popolo bue - il quale, nel 2020, è fin troppo
occupato con la Juventus che ruba sempre e con le ultime dichiarazioni di quell'attrice,
oggi novantenne, che solo ieri ha ricordato di essere stata vittima di uno
stupro da parte di Berlusconi e di Dell’Utri , dai quali era stata condotta nella
caverna dei sette ladroni dai loro complici , Totò Riina e da Salvo Lima, dopo che
almeno tre generazioni di italiani sono stati “addestrati, allevati,
ammaestrati” , come pulcini in batteria, a credere all’ “ unica verità dicibile” sul caso
Moro, ossia alla puttanata messa su col Memoriale Morucci-Faranda, diffusa da magistratura
alla Imposimato e dai mandanti di quell'omicidio ormai passati, nella mente del
popolo bue, da “ aguzzini e assassini di Aldo Moro” a suoi adorabili compagni
di partito – , terminato l’ottimo lavoro della Commissione Parlamentare Moro 2,
presieduta dall’On Fioroni, le cui scoperte e le cui prove ed esami hanno finalmente
fornito elementi finora sconosciuti o insabbiati e dato, così, una svolta decisiva
all’ “insopportabile catafalco” del “ caso Moro”, è più agevole e comprensibile
non perdersi dietro cronache e le puttanate di quei 55 giorni del 1978, ma
iniziare a spiegare questa “ più verosimile soluzione del caso Moro”, partendo
proprio dai giorni della sua morte.
Dal 13 maggio del 1978.
Quel 13 maggio del 1978, ai
solenni funerali di Stato di Aldo Moro, a San Giovanni, manca proprio lui, Aldo
Moro, il suo corpo era a Torrita Tiberina e quella liturgia rappresentava la
fine di un certo modo di essere della Repubblica italiana e dei suoi rapporti
con la Chiesa cattolica.
Quell'assenza evoca una
apostasia, più che una ribellione o la riedizione dello schiaffo di Anagni.
Era “umanamente ammissibile ” l’avversione
di Aldo Moro e della sua famiglia contro tutta la politica italiana, che aveva
pensato più a tutelare i propri interessi - con la linea dell’intransigenza o con la
linea trattativista o con la linea umanitaria -
piuttosto che a liberarlo dai suoi aguzzini e quel catafalco senza corpo
e quell'assordante assenza della famiglia ai “solenni funerali di Stato”
davanti alle istituzioni politiche italiane e davanti al popolo italiano, era un
modo per colpevolizzare tutto il mondo
politico ed istituzionale italiano del massacro disumano di Aldo Moro, per urlargli in faccia
“ ma cosa avete fatto, sciagurati!
Eppure io, Aldo Moro, vi avevo avvisato, vi avevo suggerito come fare e cosa
fare!”
.
Perché in realtà il “passpartout
da usare per ottenere la sua liberazione”, Moro, lo aveva indicato con
chiarezza, al mondo politico ed istituzionale italiano, nella lettera del 28
aprile 1978, quella diretta alla DC, a Benigno Zaccagnini, laddove si legge: “In concreto lo scambio giova (ed è un punto
che umilmente mi permetto sottoporre al S. Padre) non solo a chi è dall’altra
parte, ma anche a chi rischia l’uccisione, alla parte non combattente, in
sostanza all'uomo comune come me. Da che cosa si può dedurre che lo Stato va in
rovina, se, una volta tanto, un innocente sopravvive e, a compenso, altra
persona va, invece che in prigione, in esilio? Il discorso è tutto qui»
Ecco, a mio giudizio, il centro,
l’ombelico del problema Moro, perché tutti sapevano che si stava trattando per
concludere uno scambio, ossia la liberazione di brigatisti “già detenuti”
contro quella di Aldo Moro vivo.
E invece quella lettera di Moro a
Zaccagnini, questa del 28 aprile 1978, butta tutto all'aria, manda a carte
quarantotto tutte le trattative in corso, palesi o occulte, è un dardo, un
fulmine, una saetta che i politici italiani nemmeno percepiscono o che fingono
di non capire, è una freccia diretta, al cuore di coloro che “stavano
trattando”, ossia “lo Stato italiano e i partiti politici, in modo speciale
Craxi ed il Psi - che di “trattative” ne aveva impostate due, una a Roma, dove
Claudio Signorile trattava e intersecava il Psi con l’ala trattativista delle
Brigate Rosse (Morucci, Faranda, Lanfranco Pace, Oreste Scalzone, Franco
Piperno, ecc.) e l’altra a Milano, dove agivano personaggi “borderline” come
Lello Liguori, come Umberto Giovine, come l’avvocato Giannino Guiso, come Aldo
Bonomi, come Walter Tobagi, ecc.) –ma era soprattutto una stilettata al cuore
di Paolo VI° e quell'inciso (“In concreto
lo scambio giova (ed è un punto che umilmente mi permetto sottoporre al S.
Padre) non solo a chi è dall’altra parte, ma anche a chi rischia l’uccisione,
alla parte non combattente, in sostanza all'uomo comune come me”) indica e
suggerisce a Paolo VI° quello che il Papa avrebbe dovuto fare.
La sorpresa sta nel fatto che,
fino a quel momento, la questione dello scambio di prigionieri ‒ a livello
ufficiale e propagandistico ‒ aveva sempre preso in considerazione
l’eventualità di scarcerare brigatisti già detenuti (Besuschio oppure
Buonoconto), mentre con quella lettera Moro indica una pista del tutto diversa
da quella dello “scambio fra prigionieri”, indica e suggerisce un accordo
diverso.
Un “brigatista ancora libero” se
ne va in esilio all'estero, libero e Moro viene liberato
E infatti, poco prima di essere
ucciso, Moro scrive,” Il papa ha fatto
pochino: forse ne avrà scrupolo» in una lettera di una pagina, non
firmata, recapitata dai sequestratori il 5 maggio 1978 tramite don Antonello
Mennini.
Paolo VI° aveva predisposto e organizzato la sua trattativa, aveva
predisposto il riscatto ( 10 miliardi e 50 milioni erano pronti nella villa
papale di Castel Gandolfo), il suo piano prevedeva , secondo la testimonianza
di Don Macchi, che i sequestratori avrebbero consegnato Moro a don Curioni, il quale sarebbe stato condotto dai sequestratori nel
«carcere del popolo», ma la versione ufficiale, diffusa a operazione compiuta,
avrebbe dovuto far credere che il rilascio di Aldo Moro fosse avvenuto in spazi
extraterritoriali , dentro lo Stato della Città del Vaticano, versione che è
stata confermata da Don Fabbri, ossia dal principale collaboratore di Curioni.
Ma proprio sul pagamento di quel riscatto, in quei 55 giorni si svolse, fra
lo Stato italiano e quello Pontificio uno scontro sordo, ovattato ma non questo
meno devastante, scontro che venne percepito o addirittura direttamente “riferito”
ai sequestratori.
E questo è “ il passaggio fondamentale” per capire il fallimento della
trattativa del Papa e per comprenderne appieno le ragioni occorre riandare al “ significato politico” della riunione che
fu tenuta, lo stesso giorno del rapimento di Moro, nelle prime ore del
pomeriggio di quel 16 marzo del 1978, al quarto piano di Via Botteghe Oscure, nell'ufficio del Segretario del Pci Berlinguer , una riunione per decidere “
che fare?”, come chiese subito Enrico Berlinguer ai convocati, ossia a Luciano Violante ( che in quel momento era
colui che al Ministero della Giustizia dirigeva proprio l’apparato legale dello
Stato per decidere la risposta da dare alla sfida delle Brigate Rosse), a Tatò
e a Raparelli.
Fu una riunione veloce, asciutta, senza “un dibattito” fra gli
intervenuti, ma decisiva per la sorte di Moro, perché fu lì, in pochi minuti,
mentre tutti gli altri partiti politici erano frastornati e sbigottiti e non
sapevano cosa dire e fare, ecco che invece da quello ufficio del Pci usciva la
decisione, presa da Berlinguer, Violante, Tatò e Raparelli, ossia che “non
bisognava trattare con i sequestratori di Aldo Moro”. Insomma, telefonate,
rintracciabili, da Berlinguer a Violante quasi per rendere indelebile una
convocazione di una riunione che poi riunione non fu, ma solo parvenza, anzi,
semplice esecuzione di un ordine, possibilmente già trasmesso da chi stava
dietro al rapimento di Moro, al Pci.
Ma solo “ menti raffinatissime”, abituate e capaci di influenzare le
decisioni politiche “degli altri paesi” senza l’uso di “ armi e guerre
convenzionali”, ma usando piani e
strategie elaborate dai loro
potentissimi e espertissimi servizi
segreti , veri e propri “influencer”, come il possente Warsaw Pact – che di
Paesi ne governava, con le sue armate e i suoi piani segreti , a decine - con il suo servizio segreto militare , il
G.R.U., potevano avere studiato ed imposto al Pci, quella istantanea,
inopinata, inattesa, subitanea , sorprendente riunione tenuta alle ore 16 del
16 marzo del 19788 al quarto piano di Via delle Botteghe Oscure a Roma. Perché in tal modo il “W.P.” aveva messo, alla
gola della Dc, una vera e propria “tagliola”, che l’avrebbe obbligata a
sostenere la stessa soluzione della linea della intransigenza del Pci, un
tranello che avrebbe, come poi è accaduto, precluso alla Dc la possibilità di
sostenete soluzioni diverse dalla linea dell’intransigenza.
E come avrebbe potuto, infatti, la Dc, schierarsi su una linea umanitaria e
comunque non sulla linea, dettatagli dal Pci, di “assoluta intransigenza”, come
avrebbe potuto politicamente giustificare, davanti all’opinione pubblica
italiana, che pur di salvare la vita di un suo uomo, la Dc era disposta ad
esaudire ogni richiesta delle Brigate Rosse, a cedere senza condizioni alle
loro richieste?
A distruggere la credibilità e l’affidabilità della Dc, ove non fosse
bastata quella tagliola, vi erano tutte le riserve , tutti i serissimi problemi di carattere pratico e
istituzionale che il pagamento di
un’ingente somma di denaro a una forza che praticava l’omicidio politico e la
lotta armata pone: la certezza che i soldi vadano nelle stesse mani che detengono l’ostaggio, ma soprattutto
il dover mettere in conto una crescita esponenziale della potenza d’urto
militare dei brigatisti, quindi altri morti, soprattutto tra le forze
dell’ordine, e il ripetersi di altri rapimenti a scopo estorsivo. Proprio per
questo motivo, di solito, i pagamenti in denaro, in un teatro di conflitto
politico, sono destinati ad avvenire senza essere mai resi di dominio pubblico.
E infatti, grazie alla testimonianza diretta del teologo Gianni Gennari
oggi sappiamo che dell’iniziativa
di Paolo VI° erano stati
messi al corrente sia il segretario della Dc Zaccagnini sia il segretario
particolare di Enrico Berlinguer , Tonino Tatò e che il 3 aprile 1978, nel corso di una riunione a
palazzo Chigi dei cinque segretari dei partiti che sostenevano la maggioranza,
comunisti compresi, Giulio Andreotti , che era il Primo Ministro ottenne
il loro consenso sull'opzione del riscatto. Notizia dapprima sempre tenuta
segretissima.
A questo proposito colgo questa opportunità
, questa notizia sempre tenuta nascosta
e solo ora rivelata , grazie alle ricerche della Commissione Moro 2, per rendere , pro veritate, a Giulio Andreotti,
i riconoscimenti che merita, dopo le
dozzinali diffamazioni con le quali Paolo Sorrentino e Toni Servillo, nel 2008,
hanno maramaldamente infierito per diffamare a sangue un politico già provato
da una persecuzione giudiziaria pluriennale,
dalla quale uscì senza condanna alcuna, approfittando coraggiosamente
del prossimo “in limine vitae”, per ristabilire un minimo di verità storica, dato
che nei suoi diari, Andreotti , il 25 aprile,
riteneva fattibile il pagamento di un
riscatto in denaro insieme con
l’eventuale scarcerazione di un detenuto straniero (si parlò di un cileno) ed
escludendo invece le ipotesi di una liberazione dei terroristi o di un
salvacondotto per i sequestratori di Moro, così come sempre Andreotti annotava « «Monsignore
assicura che continueranno nella ricerca» nonostante si fosse compreso che
le Br «non vogliono
intermediazioni né denaro»; ma il 5 maggio avvertiva l’occasione di
puntualizzare, quasi a futura memoria:
«se fosse questione di denaro, sia noi che il Vaticano saremmo all'altezza»,
adombrando quindi la possibilità di un intervento diretto del governo.
Ecco come e perché quello scontro sordo, ovattato ma non per questo meno
devastante, fra le “ragioni dello Stato italiano”, tutto impegnato a
salvaguardare “gli equilibri interni ed internazionali dei suoi partiti
politici” e le “ragioni umanitarie e personali” di Paolo VI°, scontro che venne
percepito o addirittura “riferito” ai sequestratori di Moro, segnò il prevalere,
lento e progressivo, delle “ragioni di Stato dell’Italia” sulle ragioni
“umanitarie e personali” di Paolo VI° che sono andate , mano mano, sfilacciandosi,
diluendosi , oscurandosi, soffocandosi e, alla fin fine, andarono deluse.
Ecco cosa rivela quella voce disfatta, angosciata di Paolo VI° in quella
tetra liturgia dei “solenni funerali di Stato” del 13 maggio del 1978, mi
rivela l’angoscia di Paolo VI° per la sua resa, la consapevolezza del Papa di
avere dovuto chinare il capo e, in limine vitae, voltare le spalle a Aldo Moro.
Ma non basta questa sconfitta di
Paolo VI° per giustificare il fallimento della trattativa intrapresa dal
Vaticano e da Paolo VI° per liberare Moro, perché è assai probabile – a mio
personale giudizio direi “quasi certo” - che la trattativa abbia riguardato anche “il
mancato arresto di un brigatista”, di cui sarebbe stata favorita la fuga all'estero.
E infatti questo è quello
che Aldo Moro “suggerisce” al Papa e lo
dice chiaramente con quella frase di quella
sua lettera del 28 aprile alla Dc , là dove scrisse “In concreto lo
scambio giova (ed è un punto che umilmente mi permetto sottoporre al S. Padre)
non solo a chi è dall’altra parte, ma anche a chi rischia l’uccisione, alla
parte non combattente, in sostanza all'uomo comune come me.”
E tutti gli indizi mi inducono a ritenere
che il brigatista in questione potesse essere stato Alessio Casimirri.
Che Alessio Casimirri, uno dei due brigatisti che parteciparono e sparano a
Via Fani, mai arrestati e oggi liberi e latitanti (per l’altro, Alvaro Lojacono
la faccenda è risolta da tempo, perché il Lojacono è stato latitante ma nella
vicina Svizzera ed ha avuto tutto il tempo anche per prendere la cittadinanza
svizzera) vivesse in Nicaragua, era noto da tempo , esattamente dal 29 aprile del 1986, allorquando una tale Mayra
De Los Angeles Vallecillo Herrera, aveva
presentato, presso la locale sede diplomatica italiana, una denuncia per le
minacce e le violenze subite dal marito, ossia da un cittadino italiano da lei sposato a Managua
il 17 dicembre del 1983, che viveva in Nicaragua sotto il falso nome di Guido
Di Giambattista ma che era, in realtà, il brigatista latitante Alessio Casimirri,
ma non erano mai state effettuate approfondite ricerche in merito.
Il Casimirri era già segnalato, con una scheda risalente al 21 maggio del
1975, della Compagnia San Pietro dei Carabinieri, come “elemento fazioso e
violento che milita in un gruppo extraparlamentare di sinistra (Sinistra
rivoluzionaria), ma stranamente la Questura di Roma rilasciò lo stesso, al
Casimirri, il “porto d’armi” e la licenza per un negozio di caccia e di pesca,
Come per molti altri militanti o ex militanti di “Potere operaio”,
Casimirri fu “attenzionato” durante il sequestro di Aldo Moro e il 3 aprile del
1978 fu soggetto ad una “perquisizione” da parte della Compagnia San Pietro dei
Carabinieri, durante la quale venne rivenuta una sua “agendina telefonica” che
non è stata mai esaminata precedentemente.
Come e per quali motivi sia stato possibile ignorare quell'agendina telefonica, metterla da parte, non esaminarla, quando essa fu scovata proprio
nei giorni del sequestro di Aldo Moro e dato che proprio “quell'operazione” di
perquisizione aveva realmente rischiato di arrivare a quelli che solo dopo
dieci anni fu appurato erano stati gli assassini di Via Fani, ha
dell’incredibile.
Stupisce ancora di più che dopo la perquisizione del 3 aprile del 1978, il
nome di Alessio Casimirri non sia mai emerso in indagini sul sequestro di Aldo
Moro, fino al 1987.
Eppure le responsabilità di Alessio Casimirri in atri attentati delle BR
erano emersi piano piano a cominciare
dalle dichiarazioni del 5 febbraio 1982 del “ pentito” Loris Scricciolo,
da quella del 12 febbraio 1982 dell’altro pentito Roberto Buzzatti, da quelle
del pentito Massimiliano Corsi del 16
febbraio 1982 , del pentito Antonio Savasta, del 14 febbraio del 1982 e da
parecchi altri pentiti, tutte dichiarazioni “assolutamente convergenti” che
imputavano al Casimirri non solo l’attacco alla sede della DC di Piazza Nicosia
a Roma, ma anche la sua partecipazione
agli omicidi di Palma e di Tartaglione. I mandati di cattura spiccati da Roma e
da Napoli e dei quali ho prima accennato, si poggiavano su questi precisi e
concordanti indizi di colpevolezza del Casimirri.
Ma si era ancora nel 1982 mentre il coinvolgimento del Casimirri nel
sequestro di Aldo Moro a Via Fani verrà fuori solo nel 1987.
La Commissione Moro 2°, il 13 aprile del 2015 ha scoperto inoltre che, nella
documentazione depositata dal Comando dei Carabinieri di Roma (che stava
indagando sulle impronte digitali repertate sulla Renault4 nel cui bagagliaio
fu fatto rinvenire il cadavere di Aldo Moro e ancora non attribuite a nessuno)
si trovava un “cartellino foto-segnaletico” intestato a Alessio Casimirri,
emesso in data 4 maggio 1982 e che indicava, come motivo del foto-segnalamento,
“l’arresto”.
Si sapeva che a quella data il Casimirri era già stato colpito da due
“mandati di cattura” (Roma, del 16 febbraio 82 e Napoli del 4 marzo ’82), si
sapeva anche che dal 16 febbraio ’82 il Casimirri era regolarmente iscritto
nella così detta “rubrica dei ricercati alla frontiera”, per il provvedimento
di arresto, ma nessuno sapeva che il Casimirri fosse mai stato “foto-segnalato”
o addirittura “arrestato”.
Ebbene è stato accertato che quel cartellino non fu mai trasmesso al
Casellario Centrale della Polizia Criminale e che le “impronte digitali”
rilevate sul cartellino in questione non risultavano mai censite nel sistema
nazionale AFIS (AFIS è l’acronimo di Automated Fingerprint Identification System, in italiano
"Sistema Automatizzato di Identificazione delle Impronte"), che non
esistono impronte digitali di Alessio Casimirri, nemmeno quelle rilevate in
occasione della visita di leva.
E poiché le impronte sul cartellino foto-segnaletico
assumono, oggi, una importanza decisiva (per via delle tante impronte digitali
rilevate sulla Renault4 di cui ho detto e che non sono state ancora assegnate
ad alcuno), la Polizia italiana ha invitato l’Interpol di Managua “affinché metta
a disposizione dell’Italia le impronte digitali di Alessio Casimirri”, senza,
ancora, ottenere risposta.
L’esame del “cartellino” in questione
solleva parecchi dubbi di contraffazione
Per fare il punto su Alessio Casimirri, va ricordato che la sua ultima traccia
a Roma risale al 17 febbraio del 1982, quando lui e la moglie, Rita Algranati,
si presentarono da Alfredo Vaiani Lisi, loro datore di lavoro (gestiva una
cooperativa “Sperimentazione didattica” che forniva insegnanti di educazione
fisica a strutture private) per ritirare le loro ultime spettanze economiche in
quanto avevano comunicato al Vaiani Lisi le loro dimissioni il 15 febbraio
1982. La deposizione “spontanea” del Vaiani Lisi risale al 4 maggio del 1982
alla Digos di Roma.
E proprio il 4 maggio del 1982 verrà emesso il “cartellino
foto-segnaletico” di cui ho già parlato, per il “presunto arresto” del
Casimirri.
E se quel cartellino informava che Alessio Casimirri era già stato
arrestato proprio il 4 maggio del 1982, qualcuno aveva saputo della deposizione
del Vaiani Lisi, era venuto a conoscenza della sua testimonianza che
certificava la presenza a Roma del Casimirri il 17 febbraio del 1982, ebbene
quello stesso “cartellino” avrebbe evitato le immediate ricerche del Casimirri
per un suo immediato arresto, dato che quel cartellino certificava – falsamente
- che il Casimirri fosse già un
detenuto.
Insomma anche tutte le vistose ed incomprensibili “anomalie” di quel “cartellino
foto-segnaletico” di Casimirri, non hanno ancora trovato una accettabile
soluzione.
Arresto vero o arresto falso, in quel 4 maggio del 1982 per Alessio Casimirri
o un “cartellino falso” inventato apposta per una operazione di depistaggio
della quale la Commissione Moro 2 non ha potuto rilevare?
Le “volontarie deposizioni” rese mentre sono ancora in corso inchieste
giudiziarie sono coperte dal necessario “segreto istruttorio”,
Ma evidentemente il segreto istruttorio non valse per Alessio Casimirri.
Ma nessuno volle approfondire in merito.
Ancora più sbigottiti si resta studiando una informativa del Sisde del 29
dicembre del 1982, nella quale “fonte confidenziale attendibile” segnalava una
riunione, per il 1 gennaio del 1983 a Via Giacinto Pezzana, a Roma, davanti al
Liceo Dante alla quale parteciperanno tali “Marco” e “Camillo”. E lo stesso
Sisde identificava “Camillo” in Alessio Casimirri e “Marco” in Viero Di Matteo.
Il “report” del Sisde si chiude il 4 febbraio del 1983 con l’annotazione “non
sono emersi elementi di interesse”. Già. Solo che mentre mancavano “elementi di
interesse” nulla interessava al Sisde che Viero di Matteo, ossia “Marco”, era
in carcere dal febbraio del 1982.
Dunque riassumendo: Casimirri (e l’ Algranati) erano a Roma il 17 febbraio
del 1982, il Casimirri, alias Guido Di Giambattista, era a Managua il 17
dicembre del 1983.
Agli atti della Digos di Roma, un esposto di tale signor Cherubini Mario,
un ispettore della Gendarmeria vaticana, il quale riferisce che verso le 22,30
del 25 luglio del 1983 aveva incontrato, nei pressi di Ponte Garibaldi a Roma,
i noti latitanti Casimirri Alessio e Algranati Rita.
Un altro appunto della Digos, datato 9 agosto del 1984, riferiva che “fonte
di estrema attendibilità” aveva visto, circa un anno prima della data
dell’appunto, ossia ad agosto del 1983 il noto latitante Alessio Casimirri a
Castelnuovo di Porto.
Come si vede, non esiste certezza sul momento in cui Casimirri lasciò
l’Italia, né come la lasciò né le eventuali complicità delle quali godette.
Delle sue dichiarazioni credo sia vano fidarsi.
Nel 1995 dichiara (alla
Commissione Diritti Umani del Nicaragua) di essere entrato in Nicaragua il 18
aprile del 1983 con le sue vere generalità, nel 1998 a Maurizio Valentini dell’Espresso
^^^^^^^^^
Insomma il motivo che mi
induce a guardare con sospetto alla
figura di Casimirri è il fatto che egli sia stato l’unico brigatista condannato
per la strage di via Fani e l’omicidio di Moro a
essere sfuggito ai rigori della giustizia. E non sarà certo un caso che la
stessa sorte sia spettata anche ed a lungo alla moglie, Rita Algranati, anche
lei presente sul luogo dell’eccidio, rimasta latitante fino al gennaio 2004.
I due brigatisti non furono coinvolti nell'inchiesta giudiziaria relativa al caso Moro fino
al 16 febbraio 1982, ma, esattamente il giorno prima che la magistratura
emettesse un mandato di cattura nei loro confronti, si resero irreperibili
iniziando una pluridecennale latitanza.
Al di là poi della
questione, pur rilevante, degli “ autori della soffiata” che permise loro di
sottrarsi alla giustizia, nel 1987 un appunto del Sisde a
loro dedicato spiegava: «Fonte confidenziale attendibile ha riferito che i noti
brigatisti Casimirri Alessio e Algranati Rita si troverebbero in una missione
cattolica dell’Africa centrale. Il loro espatrio sarebbe stato favorito dall'intervento di un soggetto che opera in Vaticano probabilmente legato da
vincoli di parentela al Casimirri».
L’anno seguente
un’altra fonte vicina agli ambienti dell’estrema sinistra comunicava ai servizi
segreti che i due erano stati aiutati nella fuga dai genitori che avevano
svolto un ruolo decisivo con «imprecisate autorità del Vaticano» ed erano
rimasti in contatto con loro. Entrambe le informative del Sisde avevano
come concreto risultato investigativo quello di allontanare gli inquirenti
dalle tracce di Casimirri, il quale nel 1986 si era sposato con un’altra donna,
ma in Nicaragua, e aveva così conseguito, proprio nell’anno in cui venivano
inoltrate le informative, la cittadinanza di quel paese e la conseguente
garanzia di non essere estradato in Italia.
Ma al tempo stesso le
informazioni erano assolutamente veritiere per quanto riguardava quella che,
nel frattempo, era diventata la sua ex moglie. Infatti Rita Algranati, dopo
essere stata anche lei in Nicaragua fino al 1983, si era effettivamente
stabilita nel cuore dell’Africa, ossia in Angola e poi in Algeria, ove avrebbe
vissuto indisturbata fino all'arresto nel 2004.
In Nicaragua Casimirri
si legò con il regime sandinista.
Il governo italiano,
ovviamente, ha più volte richiesto
l’estradizione del brigatista motivando la richiesta con il fatto che Casimirri,
in occasione del matrimonio con la Vallecillo aveva usato un falso nome, ma
inutilmente
Inoltre un accurato
studio dei comportamenti del Casimirri in Nicaragua mi ha dato la certezza
che nei momenti in cui gli veniva a
mancare, in tutto o in parte, l’appoggio dei sandinisti, l’ex brigatista si
premurava sempre di rilasciare alla stampa dichiarazioni di stampo
intimidatorio e decisamente ricattatorio in cui annunciava, nel caso fosse stato
consegnato alla giustizia italiana, clamorose rivelazioni riguardo al
sequestro Moro e
«sugli appoggi di cui ho sempre goduto in Italia».
Per valutare bene lo
spessore criminale, ricattatorio, intimidatorio dei messaggi mafiosi del Casimirri tenendo ovviamente anche conto degli “ ambienti”
cui erano indirizzati, è sufficiente notare che, un mese dopo l’arresto della
sua ex moglie, ossia nel 2004, Algranati, Casimirri ha concesso un’intervista a
un giornale nicaraguense, in cui ha mostrato la foto che lo ritrae adolescente
accanto ai genitori, ai nonni e a Paolo VI° nei momenti della sua prima comunione. Casimirri
abbondava nel descrivere, in occasione di questi messaggi, come lui fosse
vissuto nell'ambiente vicinissimo a Papa Paolo VI°, come un familiare e come
conoscesse abitudini, amicizie, anche segreti vaticani.
Peraltro è lo stesso Casimirri che prova ripetutamente a seminare sabotaggi
per allontanare dalla sua persona sospetti, come nel 1998, quando, un anno dopo
la morte di Don Curioni e la divulgazione del nome del sacerdote da parte di
Macchi e Cremona, “confida” a un giornalista che, una decina di giorni dopo il
sequestro di Aldo Moro, le BR avrebbero «congelato» la sua posizione, in
quanto egli era stato interrogato dai carabinieri, messi sulle sue tracce
proprio dai genitori. Un sabotaggio a sua difesa, dato che, da tempo,
l’autorità giudiziaria romana sospettava, senza essere riuscita a dimostrarlo,
che egli fosse stato contattato dall'allora capitano dei carabinieri Francesco
Delfino e da lui utilizzato con imprecisate funzioni all'interno delle Brigate
rosse. Delfino, che ufficialmente non si è mai occupato del
rapimento Moro, nel maggio 1978, dunque subito dopo l’infausta fine del
sequestro, fu costretto a lasciare l’Italia per svariati anni perché
il Sismi lo avvertì che le B.R. volevano ucciderlo.
Insomma, la vita e i comportamenti degli ultimi trentanni di Alessio
Casimirri e tutte le novità mai prima d’ora rivelate e che la Commissione Moro
2 ha invece accertato e rivelato, mi inducono a “sospettare fortemente”,
confortato e sostenuto in ciò dagli innumerevoli indizi che ho narrato, tutti “
certi, precisi e concordanti” che, nei giorni del sequestro Moro, la Santa
Sede abbia coltivato segretamente e sia riuscita ad aprire una trattativa sul
riscatto di Aldo Moro fondata sulla collaborazione di Alessio Casimirri , un
brigatista in libertà, cresciuto in Vaticano .
E che a Casimirri il Vaticano
abbia concesso , in cambio, una sorta di
“ salvacondotto giudiziario”, una vera e propria protezione diplomatica, una
vera e propria “ impunità giudiziaria” che, nonostante il fallimento della trattativa , avrebbe garantito
ugualmente a Casimirri dei benefici in cambio dell’impegno da lui profuso in
quei drammatici frangenti, a causa degli imbarazzanti segreti di cui comunque
era venuto a conoscenza e in forza dei rapporti , suoi, della sua famiglia,
assolutamente privilegiati con le più alte sfere del Vaticano e persino con tre
Papi.
Suvvia, se la vicenda di Aldo Moro era stata impostata certamente per
arrivare, contro riscatto, a liberare Moro vivo, ma anche, come contropartita,
a lasciare in totale libertà un brigatista ancora in libertà, è del tutto
chiaro che lo stato di cittadino vaticano di Casimirri avrebbe facilitato di
molto la trattativa vaticana. Cosa che anche lo stesso Aldo Moro, perorava, quando
egli, in una delle sue prime lettere, scrisse «la chiave è in Vaticano, che
deve essere stato però duramente condizionato dal governo». E’ evidente che
volesse alludere proprio alla extraterritorialità del Vaticano.
Il Vaticano infatti avrebbe potuto costituire un prezioso “agevolatone diplomatico”
per agevolare la trattativa e impedire l’irrigidimento dei fronti contrapposti.
Del resto, è elemento ormai noto, per quanto nel 1978 fosse ancora riservato,
che, ai tempi del sequestro del magistrato Mario Sossi nel 1974, la Santa Sede
era già stata segretamente coinvolta nella trattativa attraverso il cardinale
Sergio Pignedoli.
Moro, che ai tempi del rapimento di Sossi era ministro
degli Esteri, citava nelle sue lettere per ben tre volte il nome di questo
porporato e sempre come canale per arrivare «con mani sicure e rapide» al papa.
In una missiva il prigioniero faceva riferimento proprio a Pignedoli esprimendo
il sibillino convincimento che egli «dovrebbe
avere qualche buon ricordo» e ritornava più volte sulla vicenda Sossi con
il pretesto di polemizzare con Paolo Emilio Taviani , ossia il ministro degli Interni
di allora.
“Last, but non the least” bisogna
anche esaminare il “contesto familiare” nel quale Alessio Casimirri è nato, è
stato allevato, è cresciuto. Intanto Alessio è figlio di due cittadini dello
Stato del Vaticano e proviene da una famiglia legata al papa da generazioni. E
il padre, Luciano Casimirri, è un personaggio, a suo modo, leggendario.
È stato il vice capo della Sala
Stampa del Vaticano con Papa Pio XII°, con Giovanni XXIII° e con Palo VI°. Fu
ufficiale italiano durante le seconde guerra Mondiale e sopravvisse all’eccidio
della Divisione Acqui di Cefalonia, a lui si è ispirato lo scrittore inglese
Louis De Berniers che scrisse il romanzo “Il
mandolino del capitano Corelli”, da cui fu tratto il noto ed omonimo film.
Alessio era coccolato ed esaltato
dalla sua famiglia, il padre ne parlava attribuendo le sue gesta criminali al
suo desiderio di giustizia, come se uccidere persone inermi fosse gesto
nobilitante. Che dunque Alessio Casimirri crebbe in una famiglia che non riuscì
ad educarlo senza ricorrere ad omicidi e violenze, ad esaltarlo in maniera schizofrenica,
lo testimonia anche il cantante Jovanotti, anche lui cittadino vaticano, che
in una intervista del 2015 a “Vanity Fair” racconta di come babbo Luciano e mamma
Ermanzia glorificavano il loro “Alessio”, facendone una sorte di eroe fin da
ragazzino.
E d’altra parte, come si dice, il
frutto non casca mai troppo lontano dall'albero.
Insomma e per concludere, la “tesi”
di Gaetano Immè e di Tanino da OrtIgIa è questa.
Subito dopo il rapimento di Via
Fani, il Vaticano propose ad Alessio Casimirri di convincere le BR a liberare
Moro vivo dietro pagamento di un riscatto di 10 miliardi e 50 milioni di lire.
Casimirri chiese come contropartita un “lasciapassare diplomatico” che Paolo VI°
gli concesse largamente, del quale Casimirri si avvalse per scappare in Nicaragua,
ben sapendo che le B.R. mai avrebbero accettato quella soluzione, perché
eterodirette dal Patto di Varsavia.
Insomma una “truffa” , un vero e proprio " pacco"di Alessio
Casimirri ai danni di Paolo VI° e del Vaticano e la condanna a morte di Moro.
Tutte le altre “trattative” di
cui straparlavano certi boriosi uomini politici, erano solo dei diversivi per
l’opinione pubblica, dei sabotaggi veri e propri
Per tramutare questa mia “tesi”
da “somma di numerosi indizi di colpevolezza, tutti certi, precisi e concordanti”
a “prova di colpevolezza convincente oltre ogni ragionevole dubbio”, ci sarebbe
stato bisogno che la Commissione Moro 2 non fosse terminata in via anticipata
con la fine della Legislatura scorsa, con lo scioglimento delle Camere e con le
elezioni politiche di marzo del 21018, con le elezioni di Salvini e del M5s.
Il fatto che, sia Salvini che Di
Maio, prima, poi anche il PD, dopo, mai abbiano neppure minimamente pensato e proposto
la riedizione e la prosecuzione della Commissione Parlamentare Moro, testimonia
e certifica, vergognosamente, quali forze politiche non vogliono che emerga la
verità sul caso Moro.
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Roma 20 febbraio 2020, tratto da un capitolo del libro " Quello che siamo stati" di Gaetano Immè, in corso di pubblicazione
Gaetano Immè